IL RUOLO DELLE EMOZIONI NELLA RELAZIONE EDUCATIVA

2014-11-04Pubblicato da PROF.SSA CRISTINA DEROSA

 

Facciamo una premessa: Ogni individuo è un’organizzazione dinamica in cui i diversi livelli e parti, il corpo, i comportamenti, la comunicazione, le funzioni cognitive, le emozioni appunto, sono tra loro in interazione reciproca, producendo un equilibrio che non è mai statico.

All’interno di questo “sistema”, ogni movimento è dinamicamente accompagnato da un reciproco cambiamento a tutti i livelli, per quanto tali interazioni non vengano registrate dalla coscienza e la persona non se ne accorga. (Ford, Lerner,1992).

È il concetto di “memoria implicita”(Schacter, 1996), per cui è dimostrata la presenza di modalità di reazioni emozionali ripetute e quasi automatiche che l’individuo mette in atto senza adeguate corrispondenti capacità rappresentative. E’ presente la mancanza di consapevolezza, per cui, quando l’individuo è in preda a tali modalità, non è che sia privo di coscienza di ciò che accade, ma non è in grado di svolgere un’adeguata funzione riflessiva e di autocoscienza su quanto sta avvenendo.

In ognuno di noi, le emozioni si presentano come particolari strutture psicofisiche caratterizzate dalla decodifica cognitiva di uno stimolo, da una serie di specifiche modificazioni dell’organismo e da un impulso all’azione come risposta, la più adeguata possibile, allo stimolo stesso. Parlando di emozioni ci riferiamo, dunque, in primo luogo a processi sempre attivi nell’individuo, sia esso un bambino o un adulto.

Mentre le modificazioni organiche che preparano l’individuo alla risposta sono innate e per certi versi permanenti, la decodifica cognitiva e la risposta sono prevalentemente frutto di apprendimento.

Le strutture nervose e cerebrali deputate all’organizzazione e al governo delle emozioni sono situate nella parte centrale del cervello: si tratta del sistema limbico, >dell’amigdala e di una particolare classe di neuroni, di recente scoperta, chiamati “mirror”(specchio).

Il nucleo centrale di questa scoperta starebbe nel fatto che, nel momento in cui si è testimoni di un’azione, si mette in moto quello stesso sistema neurale che si attiva mentre la si esegue; l’osservatore, quindi, comprenderebbe le azioni degli altri perché le mima dentro di sé e, automaticamente, ne fa esperienza.

In altri termini, dunque, “il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende”(Rizzolatti-Sinigaglia 2006), in quanto questo sistema di neuroni ha la capacità di codificare non solo l’atto osservato, ma anche l’intenzione con cui questo atto viene compiuto. La capacità di riconoscere le emozioni degli altri poggia su un insieme di circuiti neurali che, per quanto diversi, condividono comunque quelle stesse proprietà specchio già riscontrate nell’attività di comprensione delle azioni. Siamo,dunque,in presenza di una capacità di comprensione delle emozioni degli altri, che non presuppone processi cognitivi di tipo inferenziale o associativo, ed è il prerequisito essenziale per attivare comportamenti empatici. Si attiva uno scambio sociale che non riguarda soltanto le emozioni immediatamente condivise, ma anche variegate forme di imitazione, di apprendimento, di comunicazione, sia gestuale che verbale.

 

Tali strutture devono essere allenate, attraverso uno specifico apprendimento, affinché possano individuare, gestire e modulare nel modo più adattivo possibile il fluire delle emozioni.

Percepire un’emozione non è sufficiente per un sano sviluppo dell’individuo, in quanto la sola percezione tende alla scarica della pulsione in modo immediato, indifferenziato e per lo più disadattato.

 

I bambini hanno bisogno di imparare, fin da quando sono piccoli, ad individuare, gestire e modulare il proprio mondo emozionale interno, per riuscire a sviluppare adeguati livelli di autonomia, autostima e competenze relazionali, senza rimanere intrappolati in un mondo pulsionale con scarse capacità di adattamento alle esigenze della crescita e della realtà.

Tale insegnamento viene oggi chiamato “educazione alle emozioni” e realizza l’”intelligenza emotiva”.

 

Goleman qualifica “l’intelligenza emotiva” come un modo particolarmente efficace di trattare se stessi e gli altri, per cui possiamo dire che è grazie al fatto di provare sentimenti che noi sappiamo chi siamo (Goleman, 1996).

Per rispondere adeguatamente ai bisogni evolutivi e al disagio di bambini e adolescenti dobbiamo, dunque, apprendere il linguaggio dei sentimenti, liberarci dalla tentazione di rifugiarci nel giudizio e nel pregiudizio, aprirci all’ascolto e alla condivisione dello stato emotivo dell’altro.

Se la mente funziona in sintonia con gli affetti, e gli adulti sviluppano non solo competenze culturali, ma anche abilità emotive e relazionali, nel bambino e nell’adolescente si crea uno spazio interno in cui sarà possibile metabolizzare anche le>esperienze più dolorose e conflittuali, trasformandole in risorse per la crescita. In altri termini, se impariamo a riconoscere, a rispettare e a dare un nome alla varietà dei sentimenti e delle emozioni, saremo in grado di dinamizzare il nostro funzionamento mentale e psichico. Imparando a dialogare con le emozioni, aumenta la capacità di comprensione della realtà e si accrescono le competenze sociali e relazionali. Si sarà sempre più in grado di utilizzarle, sia per motivarsi alla realizzazione degli obiettivi personali e scolatici, come anche per dare un sostegno empatico ai problemi e alle difficoltà di chi ha bisogno di aiuto. All’interno del gruppo classe, l’alfabetizzazione emotiva potrà essere utilizzata efficacemente per elaborare conflitti irrisolti, ridurre le tensioni, contenere comportamenti aggressivi e provocatori, migliorare le relazioni tra insegnanti e allievi, e favorire rapporti di cooperazione, fiducia e solidarietà tra i ragazzi.

Goleman distingue tra competenze personali, riferite alla capacità di cogliere i diversi aspetti della propria vita emozionale, e competenze sociali, relative alla maniera concui comprendiamo gli altri e ci rapportiamo ad essi.

L’intelligenza emotiva personale comprende la consapevolezza di sé, che ci porta a dare un nome ed un senso alle nostre emozioni, in particolare a quelle negative, aiutandoci a comprendere le circostanze e le cause che le scatenano. La conoscenza delle proprie emozioni è il prerequisito essenziale per accostarsi alle emozioni dell’altro. La capacità di interpretare gli stati d’animo degli altri dipende dalla nostra abilità nella gestione dei nostri stati emotivi.

Più in generale, l’intelligenza emotiva permette un’autovalutazione obiettiva delle proprie capacità e dei propri limiti, così da riuscire a proporsi mete realistiche, scegliendo poi le risorse personali più adeguate per raggiungerle. Anche l’autocontrollo fa parte delle competenze personali, in quanto implica la capacità di dominare le proprie emozioni, il che non vuol dire negarle o soffocarle, bensì esprimerle in forme socialmente accettabili. Tra le competenze personali può essere collocata anche la capacità di alimentare la propria motivazione, mantenendola anche di fronte alle difficoltà, come quando le cose non vanno come avevamo previsto o speravamo.

L’intelligenza emotiva sociale è costituita da quell’insieme di caratteristiche che ci permettono di relazionarci positivamente con gli altri, interagendo in modo costruttivo.

Una delle componenti più importanti di questo aspetto dell’intelligenza è costituita dall’empatia, ossia dalla capacità di riconoscere le emozioni e i sentimenti degli altri, ponendoci idealmente nei loro panni e riuscendo a comprendere i rispettivi punti di vista, gli interessi e le difficoltà interiori.

"L'empatia"- scrive Goleman- " si basa sull’autoconsapevolezza; quanto più siamo aperti verso le nostre emozioni, tanto più abili saremo anche nel leggere i sentimenti altrui".(Golemann D., 1996, pag.124).

Essere empatici significa percepire il mondo interiore dell’altro, come se fosse il nostro, mantenendo tuttavia la consapevolezza della sua alterità rispetto ai nostri punti di vista. E’ l’accettazione incondizionata degli stati d’animo così come vengono offerti nella relazione, in una sorta di vicinanza senza confusione.

Nell’essere empatici, accanto alla condivisione dei sentimenti e dei punti di vista, c’è anche la valorizzazione degli altri, che si manifesta nel credere nelle persone, nel mettere in risalto e potenziare le loro abilità, nel sostenere la loro autonomia, nel rispettare le loro diversità individuali, etniche ed ideologiche, nell’utilizzare le differenze come opportunità e risorse, al di là di ogni giudizio e/o pregiudizio.

Attraverso la valorizzazione dell’intelligenza emotiva possiamo, dunque, combattere l’analfabetismo emotivo presente nel corso dello sviluppo, che si configura come incapacità di riconoscere, di dare un nome e di rispettare i sentimenti, propri e degli altri. Dovremmo riflettere profondamente su quanto, una scarsa autoconsapevolezza emotiva in età evolutiva, in particolare riguardo sentimenti di rabbia, ansia, paura,tristezza, abbia ripercussioni negative sulla vita mentale, affettiva e sociale dei giovani; su quanto vengano inficiate la capacità di apprendimento e di motivazione nel raggiungimento di obiettivi culturali e sociali, nonché quelle relazionali con i coetanei. C’è una stretta correlazione tra analfabetismo emotivo e la presenza di disturbi del comportamento, di inibizione intellettiva e/o di demotivazione all’apprendimento, di chiusura comunicativa, di atteggiamenti di insofferenza e di irrequietezza.

Il costrutto di intelligenza emotiva era già stato elaborato precedentemente nella letteratura scientifica da Salovey e Mayer (1989-1990), e deriva dai precedenti concetti di intelligenza sociale ed intelligenza personale proposti da Gardner (1983).

Nel delineare la sua teoria delle intelligenze multiple Gardner (1983) descrisse due forme di intelligenza personale:

- L’intelligenza intrapersonale, la capacità, cioè, di accedere alla propria vita affettiva.

- L’intelligenza interpersonale, che coincide con la capacità di leggere gli stati d’animo, le intenzioni e i desideri degli altri.

Gardner le considerava come attività biologicamente fondate di elaborare le informazioni, una diretta verso l’interno, e l’altra verso l’esterno, intimamente intrecciate.

 

In termini psicodinamici queste abilità vengono spesso definite autoconsapevolezza emotiva ed empatia. Queste abilità fondamentali dell’intelligenza personale sono centrali nel costrutto di intelligenza emotiva, che Salovey e Mayer definirono originariamente come “la capacità di monitorare le proprie ed altrui emozioni, di differenziarle e di usare tale informazione per guidare il proprio pensiero e le proprie azioni”(1989-1990), modificandola successivamente per sottolineare in maniera decisa “la capacità di pensare sui sentimenti”(1997).

La loro definizione di Intelligenza Emotiva implica l’idea che il sistema affettivo funziona in parte come sistema di elaborazione delle informazioni e delle percezioni, per cui comprende anche la percezione e la considerazione dei comportamenti emotivi nonverbali, incluse le sensazioni corporee evocate dall’attivazione emozionale, le espressioni facciali, il tono della voce e la gestualità esibita dagli altri.

Individui con elevati livelli di intelligenza emotiva riescono facilmente ad identificare e descrivere i sentimenti in se stessi e negli altri, ed usano generalmente le emozioni in modo adattivo (Salovey e Mayer,1989-1990).

Come per l’Intelligenza emotiva, gli individui variano anche nella misura in cui impiegano la “funzione riflessiva”, la capacità, cioè, di riflettere sugli stati emotivi propri e altrui (Fonagy e Target, 1997). Tale funzione richiede la capacità di formare delle rappresentazioni mentali di emozioni ed altre esperienze (ad esempio la mentalizzazione), comprese le rappresentazioni del mondo mentale degli altri. Si presume che tali differenze stiano a significare differenze qualitative nella mappatura rappresentazionale delle emozioni e dell’esperienza di sé (ib.).

E’ una funzione che evolve precocemente nella vita, quando il bambino sviluppa una “Teoria della mente”, ed è strettamente legata al raggiungimento delle abilità diregolazione affettiva (Wellman H.M., 1990).

Ad esempio, sappiamo oggi che già alla fine del primo anno di vita i bambini sono in grado di utilizzare le espressioni del volto dei genitori come fonte di informazione per regolare il proprio comportamento. Dunque, sanno attribuire alle espressioni un significato preciso. Ma come fanno i bambini ad associare una particolare espressione

all’emozione che esprime? La risposta possiamo rintracciarla nella capacità della madre di rispecchiare gli stati d’animo del figlio. Il bambino, vedendo l’espressione della madre, può acquisire informazioni su come si possono esprimere i propri stati emotivi interni.

La capacità di attribuire un significato emotivo a indici situazionali, inferendolo in base a eventi, episodi osservati o conosciuti, si sviluppa molto più tardi, come conseguenza di una crescente conoscenza dei contesti interpersonali. Intorno ai due anni e mezzo, infatti, si sviluppa un concetto di sé riflessivo, cioè i bambini riconoscono se stessi come diversi dagli altri a livello fisico e psicologico, e sono quindi capaci di oggettivare il sé. L’apparire di questa abilità favorisce l’emergere della capacità di riconoscere le emozioni altrui e di condividerle, restando consapevoli che l’emozione condivisa proviene dall’altro. Perché si sviluppi pienamente la capacità di oggettivazione del sé, il bambino deve acquisire la capacità di creare un nesso tra un oggetto reale e la sua immagine mentale (identificazione sincronica). Grazie ad essa i bambini possono riconoscere se stessi allo specchio, riconoscere altri nelle foto, etichettare le emozioni. Questo meccanismo è fondamentale nello sviluppo della relazione empatica, in cui l’osservatore percepisce che i fatti che accadono all’altro, possono rappresentare eventi sono accaduti, accadono o potrebbero accadere a lui, per cui, la situazione che l’altro vive sarà percepita come se la vivesse in prima persona.

Da un punto di vista teorico, esiste una relazione inversa ma forte tra aspetti del costrutto dell’intelligenza emotiva ed il costrutto di derivazione psicoanalitica di “alessitimia”.

Questo costrutto è stato teoricamente collegato con un deficit nella rappresentazione mentale delle emozioni e con una limitata capacità di usare gli affetti come segnali (Krystal, 2007; Taylor e al., 2000), ed ha come centrali le seguenti caratteristiche:

- Difficoltà ad identificare i sentimenti.

- Difficoltà nel descrivere i sentimenti.

- Limitata capacità immaginativa.

- Stile di pensiero orientato verso la realtà esterna.

Il secondo sviluppo interessante proviene dalla scoperta dei meccanismi cerebrali delle emozioni, descritti da Le Doux (1996), nell’affascinante libro “Il cervello emotivo”, in cui sono chiariti molti aspetti neuroanatomici e neurofisiologici dell’elaborazione emotiva, dimostrando che i sentimenti soggettivi e le manifestazioni motorie ed autonome degli stati emotivi sono i prodotti finali di un sistema basilare di elaborazione emozionale, che opera indipendentemente ed al di fuori dell’esperienza cosciente.

La struttura- chiave di questo sistema ( almeno per le emozioni di paura e di rabbia) è l’amigdala, che ha la funzione di valutare il significato affettivo degli stimoli che un individuo incontra, compresi gli stimoli provenienti dal cervello stesso (pensieri, immagini e ricordi) e quelli provenienti dall’ambiente esterno o interno.

Su un piano strettamente neurofisiologico, anche gli studi effettuati dal portoghese Antonio Damasio (1999) dimostrerebbero che la maggior parte delle nostre scelte e decisioni non sono il risultato di una attenta disamina razionale dei pro e dei contro relativi alle diverse alternative possibili. In molti casi, infatti, le facoltà razionali verrebbero affiancate dall’apparato emotivo, il quale costituirebbe una sorta di “percorso abbreviato”, capace di farci raggiungere una conclusione adeguata in tempi utili.

 

La componente emotiva coinvolta nelle decisioni sarebbe anzi determinante nei casi in cui queste riguardano la nostra persona o coloro che ci sono vicini.

Su queste premesse, “educare alle emozioni” significa offrire ad un bambino le necessarie opportunità per apprendere ad identificare, gestire e modulare il proprio mondo interno, costituito da sensazioni ed emozioni.(Goleman, 1997; Fonagy-Target 1997) ;

Gallese-Godman 1998; Damasio 1999; Rizzolatti-Fogassi- Gallese, 2001; Stern 2005).

Quando i bambini sono piccoli, essi apprendono modulando i propri stati emozionali allo stato grezzo, attraverso quello dei genitori. Tendono, cioè, a verificare che gli adulti significativi di riferimento attorno a loro sentano ciò che essi stessi stanno percependo.

Solo questo rispecchiamento reciproco permette di imparare a costruirsi una cabina di regia interna efficace e competente.

E’ auspicabile che tale sintonizzazione empatica continui anche in adolescenza, quando si avrà bisogno di figure di riferimento, rapporti intensi e nutrienti con cui confrontarsi, traducendosi concretamente in disponibilità all’ascolto, decodifica adeguata dei bisogni e dei desideri di chi affronta un percorso di crescita .

In adolescenza le pulsioni interne e le aspettative esterne diventano più consistenti ed ineludibili, i ragazzi potrebbero sentirsi in balia di “oscure forze interne” da sfuggire a tutti i costi (inibizione, disistima, depressione, paura), da anestetizzare per sopportare l’angoscia che ne potrebbe derivare (abuso di sostanze stupefacenti, alcolismo, anoressia, bulimia,ecc.), da affrontare con disperate controreazioni aggressive (bullismo, atti vandalici, adesione ad una baby gang..).

In mancata di un adeguato controllo ed un’efficace capacità di gestione delle proprie emozioni, i giovani potrebbero rimanere intrappolati in comportamenti regressivi, con la ricerca al di fuori di sè di oggetti, sostanze e situazioni dotati di poteri magici a cui finiscono per affidare la gestione del proprio sé e della propria vita.

Negli ultimi anni, alcuni neurofisiologi (Newberg et al. 2001; Cozolino, 2002), grazie all’utilizzo della diagnostica per immagini hanno scoperto che quando si configura una relazione interpersonale di affidamento, condivisione e riconoscimento reciproco di stati mentali profondi basata su empatia e sintonizzazione, l’attivazione dei lobi frontali del cervello diminuisce, mentre aumenta l’attività elettrica dei lobi parietali. I mediatori chimici prodotti da questa parte del cervello contribuiscono alla costruzione o addirittura al recupero di particolari connessioni sinaptiche nervose in grado di promuovere cambiamenti costruttivi, adattivi ed evolutivi.

Sembra che tali cambiamenti evolutivi, prodotti da una relazione empatica profonda, abbiano una maggiore possibilità di rimanere stabili ed efficaci nel tempo, rispetto, persino, agli effetti della sola terapia farmacologia, quando si tenta di affrontare e curare disagi psicologici e psichiatrici.

In altre parole, una buona relazione protratta nel tempo risulterebbe più terapeutica di qualsiasi farmaco.

Prof.ssa  Cristina Derosa  .