ALFABETIZZAZIONE EMOTIVA ED HANDICAP di Alessandra Simona

2014-10-15Pubblicato da STEFANIA ANDRIA

 



[abstract] Cos’e’ l’”alfabetizzazione emotiva” e quali possono essere le sue applicazioni sul processo di conoscenza dell’handicap e di integrazione del disabile.[fine abstract]
Premessa
Permettere ai bambini di esplorare il proprio mondo, fatto di valori, sentimenti, apprendimenti ed emozioni, confrontarsi con gli altri, apprendere l’esistenza di una diversità individuale, li aiuta a crescere nella tolleranza e nella stima reciproca, li aiuta a comunicare i propri pensieri e a rispettare le regole della convivenza civile e democratica.
La scuola rappresenta il luogo in cui i nostri bambini trascorrono gran parte della loro vita, e si pone come campo di esperienza relazionale e comunitaria; per bambini che presentano delle disabilità rappresenta anche un luogo fertile per l’integrazione e lo sviluppo dell’autonomia. Quando parliamo di disabilità visiva ci riferiamo a una perdita più o meno rilevante di capacità funzionali legate alla visione (lavoro manuale, motilità, autonomia, scrittura, lettura), da ciò deriva l’handicap visivo che invece riguarda la perdita più o meno rilevante dell’equilibrio esistenziale, personale e sociale. Possiamo fare molto affinché la perdita della funzione visiva sia esclusivamente una perdita delle funzioni ad essa correlate, ma non al benessere e alla qualità della vita della persona non vedente e di chi gli sta accanto.
Distinguere le emozioni negative da quelle positive spinge i bambini ad attivare strategie di problem-solving per superare paure, ansie, vergogna, senso di inferiorità, oltre che a sviluppare l’autostima e una percezione positiva di Sé.
Promuovere attività che aiutino alla riflessione, all’autocontrollo e all’individuazione di percorsi di vita possibili e coerenti, può consentire a tutti i bambini, ma in modo particolare a bambini con handicap, di essere promotori del proprio e dell’altrui benessere, attraverso l’assunzione di ruoli, ispirati ad una didattica orientativa, in grado di fornire processi di crescita e di sviluppo.
Elaborare dei programmi di alfabetizzazione emotiva all’interno delle scuole, consente di avvicinarsi alle problematiche inerenti l’handicap e la riabilitazione, fornendo chiavi di lettura adeguate nel responsabilizzare tutti gli attori coinvolti all’interno della classe.
Per consentire una reale integrazione ai bambini con disabilità gravi o con disabilità aggiuntive, è necessario comprendere gli stati d’animo di queste persone e il loro modo di esprimerle, modalità che non sempre utilizzano i canali privilegiati da tutto il resto della classe, ma che spesso sono fatte di: irrigidimenti, spasmi, stereotipie ed isolamenti. Imparare a leggere questi, e molti altri comportamenti, può migliorare la permanenza dei nostri bambini nelle scuole, ma anche in casa. Esprimere, riconoscere, controllare e indirizzare socialmente e positivamente le emozioni, può costituirsi tra gli insegnamenti di base; negli ultimi anni si è tanto parlato di “intelligenza emotiva” proprio per indicare l’esistenza di due menti semi-indipendenti: una emozionale e l’altra razionale; è un peccato potenziare tanto la seconda a discapito della prima, ed è un errore che forse non vogliamo più commettere.

Alfabetizzazione emotiva ed intelligenza emotiva
Molte scuole potrebbero fornire un contributo positivo introducendo nell’ambito dei normali programmi scolastici dei progetti di “alfabetizzazione emotiva”: atti ad aumentare l’autoconsapevolezza e a controllare i sentimenti negativi, conservando l’ottimismo, rimanendo perseveranti di fronte alle frustrazioni, cooperando e stabilendo relazioni sociali soddisfacenti. Per intelligenza emotiva intendiamo: la capacità di tenere a freno gli impulsi, di leggere i sentimenti più profondi delle altre persone, di gestire la relazione con gli altri adeguatamente, di evitare che la sofferenza prenda il sopravvento.
Fin dall’antichità si è sempre cercato di imbrigliare le emozioni, di addomesticarle, perché ritenute futili e scomode manifestazioni della debolezza umana, che era meglio nascondere piuttosto che mostrare; molte emozioni vengono escluse dalle relazioni intime e vengono apertamente scoraggiate; ciò avviene soprattutto nei bambini di sesso maschile a causa di retaggi culturali, e nei bambini con qualche forma di disabilità, perché si attribuisce più importanza a potenziare la parte più razionale e cognitiva, indispensabile negli apprendimenti.
La famiglia è, indubbiamente, il luogo primario in cui si esprime la prima forma di educazione emozionale, che opera attraverso le parole e le azioni dei genitori indirizzate direttamente ai figli, ma anche attraverso i modelli che essi offrono mostrando le loro modalità di gestione dei propri sentimenti e della loro vita di coppia; tuttavia anche in questo ambito i genitori possono facilmente incorrere in comportamenti inadeguati, come quelli di: ignorare completamente i sentimenti, assumere un atteggiamento non curante lasciando il figlio da solo a risolvere i problemi emozionali, essere sprezzanti mostrando di non avere rispetto per i sentimenti del bambino. Tra i comportamenti auspicabili vi è l’apprendimento dell’empatia che si basa sull’autoconsapevolezza poiché, chi è aperto verso le proprie emozioni è anche in grado di immedesimarsi e di leggere quelle altrui; ed è anche vero il contrario, nel senso che un buon atteggiamento empatico induce gli altri a sintonizzarsi con i nostri stati emotivi, avviando, in tal senso, le modalità indispensabili per una buona “sintonizzazione affettiva”.
L’intelligenza emotiva è un’abilità che va ben al di là dei fattori familiari e culturali; essa riguarda la capacità di resistere alle avversità, di possedere un ottimismo persistente, di essere in grado di riprendersi in fretta dai dispiaceri, di riuscire a frenare gli impulsi e di rimandare la gratificazione controllando l’ansia e la tensione, in una sola parola è la capacità di essere “empatici”; molte di queste caratteristiche vengono apprese nella così detta Scienza del Sé, disciplina pionieristica che opera negli Stati Uniti, il cui oggetto di studio sono i sentimenti propri e quelli che scaturiscono dall’interazione con gli altri, e che vengono compresi analizzando gli elementi che si celano dietro uno stato d’animo e le modalità di controllo dello stesso.
Gli operatori che operano nel sociale, i genitori, gli insegnanti, gli studenti si devono concentrare sul vissuto emotivo della vita di un bambino che presenta delle disabilità, come ad esempio il dolore provocato dal sentirsi esclusi, dall’invidia, dai contrasti con il gruppo dei pari, dal senso di inferiorità o dalla non accettazione della propria diversità; aprire un dialogo e affrontarlo sia dal proprio punto di vista sia da quello altrui, renderà possibile una comunicazione efficace, evitando inutili fraintendimenti e aiutando i bambini ad interpretare correttamente i messaggi sociali.
Se l’intelligenza, in generale, si definisce come la capacità di portare avanti ragionamenti astratti validi in relazione all’area di informazione e viene misurata attraverso il quoziente intellettivo; è anche possibile misurare e immaginare l’esistenza di un quoziente emotivo che comprende la capacità di capire la natura delle emozioni individuali, di scoprire le similitudini e le differenze tra esse e di impegnarsi in altre attività mentali correlate; infatti emozioni e pensieri non appartengono ad aree completamente distaccate fra loro; anche fisiologicamente, le aree cerebrali deputate al pensiero, che risiedono nel neocortex, non sono totalmente isolate dal sistema libico ed in particolar modo dall’amigdala, che è invece l’area deputata alle emozioni. Più vi è un’elevata conoscenza delle proprie e delle altrui emozioni, più si avrà il controllo su di esse. Conoscere le proprie emozioni non solo ha un impatto positivo sulla sensazione soggettiva di benessere, ma, soprattutto, evita nel caso di emozioni spiacevoli, che queste rimangano non riconosciute, inespresse e corrano il rischio di un’esplosione successiva o una sedimentazione nel corpo, dando origine a manifestazioni di origine psicosomatica. Gestire le emozioni non vuol dire “non provarle”, ma si riferisce alla capacità di esprimerle in un contesto appropriato e di viverle senza farsene travolgere. Inoltre, moltissimi studi dimostrano come l’intelligenza emotiva migliori le prestazioni lavorative sia intermini di efficacia che di efficienza, anche a scuola, l’apprendimento educativo e didattico viene positivamente influenzato dalle emozioni (Goleman, 1995).

Lo sviluppo del bambino in termini emozionali e la disabilità visiva
Prendendo in considerazione, più in dettaglio, la situazione del bambino con disabilità visiva, ci si rende conto di come lo sviluppo psico-affettivo proceda per certi versi in maniera significativamente diversa, rispetto al normale processo di sviluppo. In primo luogo ci si accorge di come l’interesse e l’atteggiamento nei confronti della realtà esterna sia più passivo e meno partecipe. Spesso, se sovrastimolato, utilizzando input extra-visivi, il bambino non vedente appare più infastidito che interessato, gli stimoli vengono percepiti in modo frammentario tanto da non riuscire a catalogarli in modo coerente, l’atteggiamento che ne consegue è quello di rinuncia. Da ciò deriva che le gravi compromissioni congenite dei processi sensoriali rappresentano un ostacolo sia per lo sviluppo di molte funzioni sia per un’adeguata rappresentazione della realtà; inoltre, anche la motivazione ad apprendere e la partecipazione attiva con l’ambiente e alle relazioni interpersonali sono molto deficitarie.
Le prime difficoltà emozionali si verificano nelle primissime forme di relazione con la madre, fin dalle prime settimane di vita, quando l’instaurarsi del contatto visivo con il bambino risulta impossibile, normalmente questo aspetto costituisce la prima forma di legame simbiotico con la madre, in quanto il bambino normodotato non percepisce la madre come entità separata ma come un insieme di sensazioni prodotte da Sé (Winnicott, 1974); il bimbo non vedente dovrà affidarsi ad altre stimolazioni sensoriali per instaurare questo rapporto simbiotico con la madre, ma spesso lei vive questa mancanza di dialogo visivo come esperienza traumatica, che immancabilmente costituisce la prima forma di disillusione alle aspettative genitoriali, nelle settimane successive al parto, occorre fare i conti e tollerare il divario tra l’immagine idealizzata del figlio e il bambino reale che hanno di fronte. Alcune madri non riescono a superare questa discrepanza, e inevitabilmente perdono la capacità di comunicare empaticamente con il proprio figlio, ponendo in tal senso le basi per un forte isolamento e deprivazione emotiva.
Il “bambino sano e bello” che tanto è stato atteso, ha lasciato il posto ad un figlio con un handicap, il lieto evento si trasforma in un evento angosciante e luttuoso.
È un enigma che pone domande sulle cause e sulle responsabilità: si cerca anzitutto una definizione patologica per capire questa insostenibile realtà, ma anche quando viene acquisita la spiegazione eziologica questa non allevia un oscuro sentimento di disperazione, implacabile e irrazionale.
Il bambino che è nato non corrisponde a quello ideale che si aspettava, mentre il figlio che presenta delle disabilità, traduce in realtà i fantasmi del bambino “anormale e mostruoso”, presente nell’immaginario di tutte le donne incinte.
In alcuni ambienti un bambino con handicap è tuttora considerato una vergogna, una “punizione divina”, il frutto di colpe e di tare ereditarie, anche in contesti culturali evoluti la reazione sociale è negativa benché più velata; proprio perché le attese di prestigio sociale e di gratificazione personale sono maggiori e i sentimenti di commiserazione sono diffusi.
Se intendiamo la famiglia come un’unità sistemica, ci rendiamo conto di come la realtà e la presenza di ogni componente influenza quella di tutti gli altri; la famiglia in cui vive un bambino non vedente è una “famiglia a rischio”: sono state rilevate alte percentuali di separazioni, di distacco dalla vita attiva e di relazione, sono frequenti depressioni della madre e pressoché costanti situazioni di nevrosi e di disadattamento dei fratelli.
Il dato, che non trova soluzione, è costituito dal fatto che quel figlio non ha una valenza sociale positiva e quindi non può essere oggetto di scambio e di comunicazione con le altre famiglie e col resto della comunità, nelle funzioni affettive, economiche e simboliche.
A livello emotivo i genitori possono rischiare o di essere privi di risorse emotive da investire nel rapporto con il proprio bambino non vedente, oppure di assumere un atteggiamento patologicamente simbiotico (una volta superato il trauma iniziale), tanto da non creare il normale spazio relazionale di cui il bambino necessita, per strutturare e formare il proprio “Io”, che verrebbe vissuto dai genitori come troppo doloroso perché sarebbe un “Io disabile”. L'educazione impartita durante l'infanzia, modella e rinforza il pensiero irrazionale. Si possono individuare alcuni stili educativi particolarmente “disfunzionali” poichè facilitano l'acquisizione di una visione del mondo irrealistica.
Stile iperansioso. È riscontrabile in quei genitori che si preoccupano eccessivamente per la sicurezza fisica del bambino. Un bambino che si sente frequentemente lanciare messaggi di questo tipo apprenderà una visione della vita basata su convinzioni irrazionali ed irrealistiche che lo fanno sentire inadeguato ed incompetente. I genitori nei quali prevale questo stile educativo tendono ad avere figli timidi, paurosi, insicuri e alla ricerca ossessiva di sicurezza. Con un atteggiamento di questo genere, il bambino ha molte probabilità di diventare un adulto ansioso. Si verifica una sorta di contagio emotivo che avviene attraverso la mediazione di questo tipo di messaggi che il genitore trasmette in continuazione al bambino. Nel caso di un bambino non vedente, egli imparerà presto che non è in grado di far nulla da solo, si sentirà come fosse di “cristallo” e non proverà a cimentarsi in compiti sconosciuti che vivrà come troppo pericolosi.
Stile iperprotettivo. Lo stile iperprotettivo ha delle caratteristiche simili a quello iperansioso, però anziché stare in ansia per l'incolumità fisica del bambino, in questo caso il genitore si preoccupa dell'incolumità emotiva in modo eccessivo. Si tratta di genitori che cercano di evitare al bambino ogni minima frustrazione, perché temono che potrebbe soffrire in modo irreparabile per il resto della sua vita. Ciò può costituire un grosso problema in quanto viene ostacolata nel bambino la possibilità di imparare a tollerare i disagi e le frustrazioni. Il bambino viene al mondo con una capacità di tollerare la frustrazione che è a livello zero. La tolleranza ad essa si sviluppa gradualmente con l'esperienza durante la crescita, ma se il genitore impedisce questo sviluppo, il bambino si sentirà sopraffatto quando si troverà in circostanze che provocano in lui disagio o sofferenza anche minima. Nel caso di genitori di bambini non vedenti tutti questi comportamenti/atteggiamenti vengono accentuati, essi temono di sentirsi in colpa se non riescono a eliminare tutte le possibili fonti di disagio dalla vita del loro bambino, che è gia tanto sfortunato da non dover subire altre frustrazioni, per cui spesso riversano sul figlio dimostrazioni di affetto in modo eccessivo e indiscriminato, rinforzando in lui anche la tendenza ad evitare le difficoltà. Questo stile educativo crea spesso bambini con bassa tolleranza alla frustrazione ed eccesso di egocentrismo. Più frequentemente ancora, genera bambini insicuri, non preparati ad affrontare reazioni diverse da quelle a cui si sono abituati nell'ambiente familiare. Diventa difficile, per questi bambini, prevedere quale possa essere per loro il comportamento più adeguato da adottare ed in seguito a ciò spesso cominciano a considerare "terribili" le conseguenze di eventuali azioni sbagliate e a nutrire dubbi sul proprio valore personale.
Stile ipercritico. Questo stile educativo è caratterizzato dalla tendenza a notare ed ingigantire gli errori e i difetti commessi dal bambino. L'adulto sarà sempre pronto ad intervenire per notare ogni minimo difetto, ogni comportamento negativo, senza mai far caso e senza mai incentivare o rinforzare i comportamenti positivi; l'interazione col bambino avviene quasi esclusivamente sotto forma di rimproveri o accorgimenti, come molti genitori sono solleciti a puntualizzare. È un modo di rapportarsi caratterizzato da un'elevata frequenza di comportamenti di critica che possono essere manifestati apertamente oppure in modo sottile. Tali comportamenti sono: rimproveri eccessivi, rimbeccate, manifestazioni di biasimo, commenti moralistici, messa in ridicolo del bambino, svalutazione del figlio. Un bambino educato seguendo questo stile avrà sempre paura di sbagliare, paura di essere disapprovato, tenderà all’isolamento sociale, avrà un basso livello di autostima ed infine attuerà comportamenti di evitamento.
Stile perfezionistico. È tipico di quei genitori che considerano sbagliato tutto ciò che non è perfetto al cento per cento, in quanto esigono, dai propri figli, livelli di prestazione molto elevata, senza essere abbastanza oggettivi nel considerare quali siano le difficoltà del compito. Questo stile educativo è sostenuto dalla convinzione che bisogna riuscire bene in tutte le cose e che il valore di un bambino, come quello dei suoi genitori, dipende dai successi che egli riesce a conseguire. Tali genitori comunicano al bambino che egli vale qualcosa e merita di essere amato solo se riesce in tutto quello che fa. Inoltre nel caso di bambini non vedenti essi devono dimostrare che nonostante non sono riusciti ad essere perfetti a causa del loro deficit, in tutto il resto sono impeccabili! Acquisiscono essi stessi un atteggiamento perfezionistico ed imparano a temere la disapprovazione ed il rifiuto qualora non riescano completamente bene in ciò che intraprendono. La possibilità di sbagliare viene considerata una catastrofe.
Stile incoerente. I genitori che presentano questo stile tendono a gratificare o a punire il bambino a seconda del loro umore anziché in base all'adeguatezza o meno del comportamento. Si tratta di genitori che spesso rimproverano il bambino per i suoi errori, senza stabilire con lui delle regole chiare. Questo stile non fa altro che confondere il bambino che viene posto in una condizione di “Indecidibilità”, non sanno mai che decisione prendere poiché tutte le loro convinzioni e i loro comportamenti possono essere giusti o sbagliati allo stesso tempo.
Infatti, dall’altro polo della relazione, il bambino non vedente manifesterà il proprio disagio e la frustrazione, per non essere all’altezza delle aspettative dei genitori, con una forte passività e retrazione da tutto ciò che lo circonda, si dimostrerà impaurito ed insicuro, tenderà a delegare ai genitori la tutela della propria cura e della sua sicurezza, creando così una spirale negativa che indurrà i genitori a sentirsi sempre più in colpa nei suoi confronti.
Se per disabilità includiamo anche i bambini che, fin dalla nascita, presentano altre disabilità aggiuntive oltre al deficit visivo, ci renderemo subito conto di come il semplice accudimento quotidiano rappresenti una continua fonte di frustrazione; in questi casi elaborare il lutto per la perdita del figlio idealizzato si scontra con lo stato generale di cure che vede stravolgere i ritmi veglia-sonno, l’alimentazione, l’igiene personale. Anche i canali comunicativi vengono totalmente stravolti, infatti i bambini con deficit visivo che hanno anche gravi compromissioni neurologiche, evidenziano dei particolari indici di espressione delle loro sensazioni/emozioni come:

• le reazioni posturali (intese come modifica transitoria del tono muscolare, come arresto momentaneo dell’attività motoria o della suzione, come breve rallentamento degli atti respiratori);
• il sorriso alla presentazione del target;
• ammiccamento delle palpebre;
• modifica della mimica facciale che si traduce nell’apertura della bocca, nei movimenti di suzione, nella protrusione della lingua per ricercare l’esplorazione orale (Prisma, 2004).

La RET e l’alfabetizzazione emotiva
La RET è una psicoterapia ad orientamento umanistico, sviluppatasi negli anni ‘50 dallo psicologo clinico statunitense Albert Ellis. Secondo Ellis, i disturbi della sfera emotiva sarebbero il risultato di pensieri illogici e irrazionali, orientati verso l’assolutezza nei giudizi e verso una rigida concezione di ciò che si “deve essere” (A. Ellis, R. A. Harper, 1975; A. Ellis, R. Grieger, 1977); reazioni emozionali prolungate sono causate da asserzioni su di sé che l’individuo ripete a se stesso e che riflettono talvolta assunti inespressi, convinzioni irrazionali riguardo ciò che si ritiene necessario per condurre un’esistenza significativa. Uno dei compiti della terapia è dunque quello di individuare e chiarire queste credenze irrazionali, ingiustificate e nocive al benessere del paziente, per sostituirle con altre, più realistiche e flessibili, maggiormente utili per l’adattamento del soggetto. Ellis sostiene che le persone interpretano ciò che avviene intorno a loro, e talvolta tali interpretazioni possono generare gravi turbamenti emotivi; l’attenzione del terapeuta dovrebbe essere quindi rivolta a queste convinzioni. Questo approccio è centrato sulle modalità cognitive individuali di costruzione della realtà e della sua interpretazione. L’ambito applicativo più mirato riguarda i pazienti con disturbi non gravi, o con disabilità specifiche che possiedono buone capacità intellettive e una buona forza dell’Io per accettare ed intraprendere i cambiamenti richiesti. A distanza di quarant'anni la terapia razionale emotiva (RET) ha cambiato il nome in terapia comportamentale razionale-emotiva (rational-emotive behavior therapy/REBT), ponendo l’accento sulle implicazioni comportamentali e gettando le basi alla moderna prospettiva cognitivo-comportamentale. Nel corso degli anni la REBT è andata sviluppandosi non solo come prassi psicoterapeutica, ma anche come una procedura di "auto-aiuto" e di "autotrasformazione". Questo è uno degli obiettivi anche dell’Educazione Razionale-Emotiva che si rivolge soprattutto a bambini e adolescenti, per cui è attuabile in un contesto scolastico come strategia avente finalità preventive. In molti casi può essere d’aiuto anche qualora siano già insorte problematiche emotive, purché non ancora strutturate secondo un quadro psicopatologico vero e proprio.
La REBT distingue tre categorie nella classificazione dei processi cognitivi:

a) Processi cognitivi di tipo descrittivo. Si riferiscono al modo in cui l’individuo percepisce e descrive la realtà.
b) Processi cognitivi di tipo inferenziale (o interpretativo). Si riferiscono al modo in cui l'individuo interpreta la realtà percepita.
c) Processi cognitivi di tipo valutativo. Si riferiscono al modo in cui l'individuo giudica o valuta ciò che ha interpretato.

Secondo la REBT il disagio emotivo deriva da errori che possono essersi verificati in ciascuna delle tre categorie di processi cognitivi. Diversamente però da altri tipi di terapia cognitivo-comportamentale, la REBT considera maggiormente rilevanti gli errori contenuti a livello di valutazioni e giudizi e ritiene che una soluzione stabile e definitiva del problema avviene operando una ristrutturazione cognitiva in questa terza categoria di processi cognitivi.
Già all'inizio della sua elaborazione teorica Ellis aveva individuato alcuni dei più ricorrenti errori di valutazione della realtà e li aveva riassunti in questo elenco di convinzioni irrazionali:

1. Si deve essere sempre amati o apprezzati da tutte le persone significative.
2. Si deve essere sempre bravi e competenti per essere considerati degni di valore.
3. Certe persone sono completamente negative, malvagie e meritano di essere severamente condannate e punite.
4. È terribile e catastrofico se le cose non vanno come vogliamo.
5. La sofferenza umana dipende solo da cause esterne e non possiamo fare nulla per controllare o cambiare le nostre emozioni.
6. Se qualcosa è o può essere pericoloso bisogna preoccuparsene enormemente e pensarci in continuazione.
7. È meglio evitare certe difficoltà piuttosto che affrontarle.
8. Bisogna per forza dipendere dagli altri e avere qualcuno di più forte su cui contare.
9. Ciò che ci è accaduto in passato continuerà ad influenzare per sempre la nostra vita.
10. Dobbiamo sconvolgerci enormemente per i problemi e i disturbi degli altri.
11. Ci deve essere sempre una soluzione giusta e perfetta per qualsiasi problema ed è una cosa orribile non riuscire a trovarla.
Successivamente Ellis si rese conto che era possibile considerare tutte le convinzioni irrazionali come derivate da - o subordinate a - tre “doverizzazioni di base”: su se stessi ("Io devo agire bene ed essere approvato da tutte le persone per me significative, altrimenti sono completamente un incapace e ciò è terribile"); su gli altri ("Gli altri devono trattarmi bene ed agire come io penso che debbano assolutamente agire, altrimenti sono delle carogne, dei mascalzoni e meritano di pagarla"); sulle condizioni di vita ("Le cose che mi succedono devono essere proprio come io pretendo che siano e tutto deve essere facile e gradevole, altrimenti la vita è insopportabile"). Da queste principali convinzioni irrazionali “doverizzanti” possono scaturire altre categorie di pensieri irrazionali (dette appunto derivative). Esse sono:
Pensiero catastrofico: Consiste nell’esagerare oltremodo l’aspetto spiacevole o doloroso di certi eventi. Tipici esempi sono: "Se sbagliassi o prendessi un brutto voto sarebbe terribile", "É orribile essere criticati".
Intolleranza- insopportabilità: Si tratta di pensieri che denotano una bassa tolleranza alla frustrazione. Consistono nel ritenere che certi eventi obiettivamente spiacevoli non possono essere sopportati, ad esempio: "Non posso sopportare di fare quello che non mi piace", "È insopportabile avere così tanti compiti da fare", "Non posso tollerare di essere preso in giro".
Svalutazione globale di sé’ o degli altri: Consiste nel ritenere che poiché non si è riusciti bene in qualcosa, allora siamo un fallimento totale. Oppure la svalutazione globale può essere rivolta agli altri, ritenendo che se uno o più aspetti del comportamento di una persona sono negativi, allora l’intera persona è negativa. Esempi di entrambi i tipi di svalutazione globale potrebbero essere: "Sono così stupido e incompetente", "Sono senza speranza", "É una vera carogna", "La mia insegnante è completamente incompetente".
Indispensabilità-bisogni assoluti: È un modo di pensare che ci porta erroneamente a considerare indispensabile ciò che è desiderabile, auspicabile, utile, ma di cui possiamo anche fare a meno, pur con qualche inconveniente. Con questa forma di pensiero trasformiamo certi eventi, certe persone o certi oggetti in un “sine qua non” per la nostra felicità. È come se dicessimo: "Posso essere felice solo se avrò questo", ma così facendo ci costruiamo la nostra stessa infelicità. In molti casi ciò che consideriamo indispensabile sono l’approvazione, la stima, l’affetto, l’amore, l’amicizia. Ne sono alcuni esempi: "È indispensabile essere apprezzato da tutti i miei amici", "Non potrei andare avanti se non avessi l’affetto di tutte le persone", "É indispensabile che i miei insegnanti riconoscano e apprezzino il lavoro fatto".

Il processo di educazione emotiva deve essere, dunque, inteso come una strategia di prevenzione del disagio emotivo, che costituisce, un vero e proprio lavoro di "alfabetizzazione emozionale”, utilizzando l'espressione coniata da alcuni psicologi statunitensi. Si tratta di un percorso attraverso il quale si cerca di educare la mente del bambino al potenziamento di quel aspetto dell'intelligenza che è in grado di favorire reazioni emotive equilibrate e funzionali. Attuare un processo di alfabetizzazione emotiva significa insegnare al bambino l'ABC delle emozioni. Il modello dell'emozione adottato nell'ambito dell' educazione emotiva include i tre elementi che intervengono in qualsiasi manifestazione emotiva: si considera l'evento attivante; la propria rappresentazione mentale della realtà, cioè il proprio modo di pensare, di interpretare e valutare; la situazione vissuta dall'individuo, quindi la sua reazione emotiva e comportamentale. L'ABC delle emozioni, se insegnato precocemente al bambino, consente di fornire uno strumento che lo metterà in grado di comprendere le proprie reazioni emotive negative per poterle successivamente trasformare. Ciò non vuol dire che non proverà più emozioni spiacevoli, ma anziché essere sopraffatto da esse, sarà in grado di dominarle.
L'Educazione Razionale-Emotiva riconosce che le emozioni, anche quelle negative, hanno un loro valore legato alla sopravvivenza della specie. Così come il dolore fisico ci comunica che qualcosa sta nuocendo al nostro corpo, anche il disagio emotivo funge da segnale che ci avverte dell'opportunità di mobilitare le nostre risorse per fronteggiare la situazione. Se però questo disagio emotivo si fa troppo intenso ne saremo sopraffatti e non saremo più in grado di attivare, in modo efficace, le nostre risorse personali. L'intento dell'Educazione Razionale-Emotiva non è quindi eliminare ogni emozione spiacevole, ma minimizzare l'impatto che tali emozioni hanno sulla vita dell'individuo, favorendo nel contempo la massimizzazione di emozioni positive. Di solito un programma di Educazione Razionale Emotiva si sviluppa attraverso tre fasi:

• Si cerca di aiutare il bambino a riconoscere, a identificare le proprie emozioni, a essere consapevole di come si sente quando prova un certo disagio emotivo, nel bambino con disabilità visive occorre far attenzione a quali canali di valutazioni si riferisce per riconoscere le proprie emozioni.
• Poi si tratta di aiutarlo a identificare il rapporto esistente fra modo di sentirsi e modo di pensare, rendendosi conto che se si sente in un certo modo è perché pensa secondo determinate modalità che gli sono proprie o che ha appreso dall’esterno, ed in modo particolare dalla famiglia.
• Infine, si cercherà di aiutare il bambino ad intervenire su quei meccanismi mentali che sono alla base di emozioni disfunzionali, operando una trasformazione all’interno della propria mente e quindi cambiando qualcosa nel proprio dialogo interno, ossia nel modo in cui parla a se stesso quando interpreta e valuta ciò che gli accade. Tecnicamente questo è ciò che si intende per ristrutturazione cognitiva.

È necessario che il terapeuta, l’insegnante, i genitori abbiano una certa padronanza nel fronteggiare le emozioni negative. Per questo un piano di attuazione di un programma di educazione emotiva dovrebbe sempre iniziare con un lavoro che queste figure attuano su se stesse. Ciò non significa reprimere le proprie emozioni, ma trasformarle agendo sul meccanismo che determina l'insorgere e il perdurare di stati emotivi negativi; tale meccanismo è dentro la nostra testa ed è costituito dai nostri stessi pensieri. Acquisire la capacità di fronteggiare le emozioni negative significa quindi imparare a riconoscere e a trasformare i propri pensieri irrazionali. Occorre dunque:

• Avere consapevolezza dell'insorgere di uno stato d'animo negativo;
• riconoscere dei pensieri che precedono e accompagnano il manifestarsi di tale stato d'animo;
• individuare i pensieri nocivi o irrazionali;
• correggere e trasformare tali pensieri disfunzionali attraverso il ragionamento;
• ricorrere continuamente a nuovi modi di pensare più adeguati al fine di sperimentare reazioni emotive e comportamentali più funzionali alla situazione.

Pensare di attuare un progetto di Educazione Razionale-Emotiva nella classe significa creare delle esperienze di apprendimento attraverso le quali l'alunno acquisisce consapevolezza dei propri stati emotivi e dei meccanismi cognitivi che li influenzano, per poi applicare tali conoscenze per risolvere i problemi e le difficoltà che incontra nella vita scolastica e in quella quotidiana.
Gli obiettivi principali che vengono perseguiti attraverso l'applicazione dei principi e dei metodi dell'Educazione Razionale-Emotiva sono:

• Favorire l'accettazione di se stessi, degli altri e della propria diversità.
• Aumentare la tolleranza alla frustrazione che deriva dai limiti che ciascuno possiede.
• Saper esprimere in modo costruttivo i propri stati d’animo.
• Imparare il rapporto tra pensieri ed emozioni.
• Incrementare la frequenza e l’intensità di stati emotivi piacevoli.
• Favorire l'acquisizione di abilità di autoregolazione del proprio comportamento.

L' attuazione dell'Educazione Razionale-Emotiva nella classe può avvenire in diversi modi:

• Attraverso un approccio informale: trasmettendo i concetti connessi al benessere emotivo all'alunno proprio quando egli si trova ad affrontare una particolare situazione difficile. Possono essere coinvolti tutti i compagni attraverso discussioni di gruppo ed esercitazioni.
• Attraverso lezioni strutturate: preparando una serie di lezioni che si sviluppano in base a degli obiettivi. Le lezioni hanno carattere esperienziale ed includono giochi di simulazione, discussioni di gruppo, role-playing, brainstorming. Il programma può essere rivolto a un sottogruppo di alunni provenienti da più classi oppure all'intera classe.
• Integrazione nelle materie curricolari. Con questa modalità i contenuti dell'Educazione Razionale-Emotiva vengono inseriti all'interno di quelle materie che maggiormente si prestano a tale integrazione.

L’educazione emotiva a scuola
Il disagio emotivo-comunicativo che vive all’interno delle famiglie si identifica anche all’interno dell’istituzione scolastica. Per intraprendere un programma di educazione emotiva in ambito scolastico dobbiamo partire dal presupposto che l’educazione emotiva serve a gestire conflitti, incomprensioni, situazioni di tensione, sovraccarico, stress emotivo. Le emozioni sono alla base della motivazione e del coinvolgimento personale, così come l’analfabetizzazione emotiva è la causa di blocchi e difficoltà di apprendimento. Uno dei compiti più ardui che la nostra società ci impone è quello di adattarci all’ambiente in cui viviamo. Il luogo in cui sperimentiamo le nostre, cosiddette, competenze sociali, oltre che in ambito familiare, è rappresentato dalla scuola; intesa come istituzione che, impone delle norme comportamentali, che richiedono un certo grado di abilità nello stare insieme agli altri. Molto spesso si assiste ad una forte incompetenza dal punto di vista della vita emozionale, incompetenza che riflette la poca importanza che si attribuisce alle emozioni, da parte di tutti gli individui. Questa incompetenza si riflette nella quasi assoluta impossibilità, o difficoltà a riconoscere ed esprimere le proprie e le altrui emozioni, ed inevitabilmente a fraintendere i messaggi emotivi, dando origine alla tendenza ad esigere che i propri bisogni personali vengano immediatamente soddisfatti e che abbiano la precedenza sui bisogni degli altri; inoltre è frequente il ricorso all'aggressività per conseguire i propri scopi, l’oppositività, la tendenza alla trasgressione di norme sociali. Tutto ciò si traduce in disturbi della condotta e in iperattività. Da un punto di vista soggettivo la sofferenza che viene vissuta interiormente, e che spesso passa inosservata ad un'osservazione superficiale, si traduce in ansia e depressione. È interessante notare che la maggior parte delle segnalazioni che gli insegnanti rivolgono ai servizi specialistici per alunni in difficoltà, riguardano quasi esclusivamente i disturbi della condotta e l’iperattività, entrambi molto difficili da gestire. È molto raro che un insegnante segnali ad uno psicologo o ad un neuropsichiatra infantile bambini che hanno problemi di ansia o problemi depressivi, in quanto si tratta di soggetti che di solito non disturbano e non creano problemi nella classe; questo comportamento non curante viene accentuato dalla presenza in classe di un bambino non vedente, i cui stati d’animo sono spesso celati da un’apparente tranquillità e passività di carattere. Si tratta di alunni che tendono a isolarsi, o più spesso vengono isolati; che tendono a chiudersi in se stessi, che rimangono passivi e sottomessi nei confronti degli altri. In effetti un deficit nelle abilità relazionali accompagnato da un deficit fisico, è una costante di molti disturbi emotivi. Se il bambino è ansioso, o peggio se è depresso, manifesterà una certa inadeguatezza nel modo di rapportarsi con i propri coetanei, che tenderanno ad escluderlo progressivamente dal resto della classe. Si è potuto constatare che la maggior parte dei disturbi emotivi sono influenzati da alcune modalità distorte con cui il bambino o l'adolescente rappresenta mentalmente se stesso e il proprio mondo. Si tratta della tendenza ad ingigantire gli aspetti negativi della realtà, ricorrendo a modalità di pensiero rigide e assolutistiche; categorizzare in modo estremo influisce negativamente sull'umore e quando questo processo si consolida, diventando il modo abituale di considerare se stessi e il proprio mondo, può condurre a disturbi emozionali quali ansia e depressione. È proprio aiutando il bambino a correggere gli errori presenti nel suo modo di rappresentarsi la realtà che possiamo metterlo in grado di superare emozioni spiacevoli. In pratica, per toccare il cuore del bambino dobbiamo passare per la sua mente, aiutandolo a cambiare gli elementi disfunzionali del suo dialogo interno. Si è visto che se un bambino viene allenato fin da piccolo con apposite procedure, può essere in grado di ascoltare se stesso e di essere cosciente di quali sono i contenuti mentali che influenzano il suo stato emotivo. Per questo, la maggior parte dei programmi di prevenzione messi a punto in questi ultimi dieci anni, prendono in considerazione il rapporto esistente tra pensiero ed emozione. L'Educazione Razionale-Emotiva si muove appunto dalla constatazione che è possibile favorire il benessere emotivo del bambino insegnandogli, quanto prima possibile, a pensare in modo corretto. È auspicabile che questa forma di educazione passi in primo luogo dai genitori e poi dagli insegnanti. Nel caso di bambini con problematiche visive le emozioni da veicolare saranno maggiormente cristallizzate, coatte; poiché prendere contatto con la vita emotiva riapre ferite non ancora rimarginate; queste famiglie e questi bambini hanno, quindi, il diritto di avvalersi di programmi di educazione emotiva perché indubbiamente ciò li aiuterà a migliorare la propria qualità di vita e il proprio benessere.
La scuola appare contagiata dalla sopravvalutazione della dimensione tecnico- razionale, espellendo tutte le altre dimensioni della persona. In tal modo abdica alla sua funzione formativa, per appiattirsi su una sola dimensione dell’intelligenza, quella cognitiva, trascurando tutte le altre. Occorre recuperare e valorizzazione l’educazione dell’intelligenza emotiva in famiglia, a scuola, e in tutti gli altri contesti di vita del bambino, che pertanto deve essere formato nella sua globalità e nelle sue poliedriche sfaccettature, in modo da tener conto dei suoi interessi ed aspirazioni personali, secondo un metodo attento e rispettoso dei suoi ritmi e dei suoi stili di apprendimento.
Proprio il ruolo delle emozioni nell’apprendimento costituisce un punto cardine sul ruolo del docente e sulla sua funzione pedagogica.
L’apprendimento è un’esperienza emotiva; le emozioni positive alimentano il desiderio ad apprendere, lo facilitano e lo rafforzano; le emozioni negative, legate a sfiducia, senso di emarginazione, incapacità, lo compromettono.
Emerge un tema molto importante, che è il benessere emotivo dell’individuo all’interno del gruppo classe, attraverso la cura di un clima di classe positivo, partecipe, solidale, alla cui costruzione, nel rispetto delle regole condivise, sono tenuti a collaborare gli studenti giorno per giorno, imparando così la responsabilità reciproca, l’altruismo, in un ambiente attento alle risorse e alla valorizzazione di ciascuno. L’insegnante deve favorire l’autorealizzazione dei propri studenti, deve trasmettere entusiasmo ad apprendere, deve essere accogliente e deve saper comprendere e incoraggiare nelle difficoltà. Se volessimo stilare un programma di formazione emotivo-comportamentale, all’interno della programmazione curricolare di una scuola elementare, ci renderemmo subito conto di come un simile progetto sia di semplice attuazione, infatti: per l’insegnamento della lingua italiana si potrebbe presentare un testo scritto, ed individuare le parti in cui si connotano le emozioni dei personaggi. Si potrebbero descrivere, per iscritto o verbalmente, episodi emotivi personali o episodi che si sono verificati all’interno della classe. Sarebbe utile compiere una distinzione fra la
realtà oggettiva e la realtà soggettiva, in modo da comprendere che non tutti percepiamo le cose allo stesso modo; una sorta di allenamento al pensiero razionale. Anche gli studi sociali si connotano perfettamente all’interno della programmazione emotivo-comportamentale, in quanto permettono di sviluppare la capacità di dialogare con gli altri all’interno di un gruppo, discutere ed esprimere le proprie opinioni ed emozioni, dare il proprio contributo per l’attuazione di uno obiettivo comune al gruppo; favorendo nei bambini la capacità e l’attitudine a verificare gli atteggiamenti individuali e quelli del gruppo che possano turbare l’armonia della convivenza democratica. In una materia come l’educazione all’immagine, sarà dunque importante, riconoscere gli elementi che in un’immagine denotano le emozioni; nel caso di bambini che presentano un handicap visivo, utilizzare il tatto come indicatore delle emozioni espresse dalla mimica facciale e dal linguaggio del corpo. Saper esprimere operativamente in modo creativo e personale emozioni, mediante: tecniche particolari di stesura del colore; nell’utilizzo di materiali vari; nelle attività di manipolazione e di modellaggio. Per bambini che presentano oltre alla disabilità visiva, delle minorazioni aggiuntive, può essere di grande conforto l’educazione al suono e alla musica per individuare e riconoscere suoni e rumori della natura e dell’ambiente che suscitano emozioni, da cui derivano gli stati d’animo fondamentali.
Analizzare le emozioni suscitate dall’ascolto di brani musicali.
discriminando le emozioni scaturite da particolari ritmi, toni, intensità.
Produrre suoni, rumori, capaci di indurre particolari stati d’animo. Comprendere perché la scelta di determinati suoni suscita in noi emozioni esclusivamente positive o solamente negative. Di grande aiuto può essere l’educazione motoria perché ci permette di entrare in sintonia con il nostro corpo e con lo spazio circostante; inoltre è possibile esprimere gli stati d’animo con il corpo, individuare posture e mimiche in relazioni a particolari stati emotivi. Inoltre, i training di rilassamento possono costituire un’importante strumento per canalizzare e gestire le emozioni e gli stati d’animo negativi che derivano dalle emozioni stesse. Le scienze possono far riconoscere i correlati neurovegetativi delle emozioni, rendendoci consapevoli dei pensieri connessi agli stati emozionali. Considerato che lievi disagi del bambino possono evolvere in un vero e proprio disturbo durante l’adolescenza e costituire un serio problema psicologico in età adulta, l’intervento precoce può essere utile al costituirsi di competenze emotive da utilizzare in età adulta. Ogni materia può essere seguita o accompagnata da giochi di simulazione, role-playing, giochi di gruppo, compilazione di materiale strutturato. Come spazi disponibili a scuola, si potrebbe utilizzare la palestra con un gruppo-classe per volta, o l’aula per qualche ora la settimana; sarebbe importante poter effettuare una verifica iniziale e finale della situazione per una valutazione dei risultati conseguiti.

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Simona Alessandra (psicologa)