L'interferenza emotiva

2014-10-15Pubblicato da Massimo Calenzo

 

Interferenza dell’emozione sulle capacità di apprendimento
di Moncef Guitouni
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• Introduzione
• L’intelligenza Emozionale
• L’interferenza emotiva e i suoi fattori
• Lo stress e la disponibilità ad imparare
• Tracce per possibili interventi

Introduzione
L’interferenza emotiva è un fenomeno che nuoce all’apprendimento della lettura e scrittura. Come si manifesta? Quali sono i fattori che possono provocarla e quali sono le conseguenze? Come intervenire per prevenirla?
Questo articolo fornisce delle risposte a tali interrogativi allo scopo di aiutare i giovani a raggiungere un equilibrio emotivo e a realizzare il loro potenziale di apprendimento.

Numerosi approcci rieducativi o psicopedagogici cercano di individuare le difficoltà di apprendimento degli alunni attraverso degli studi centrati soprattutto sulla sfera cognitiva come elemento di base che mira a permettere al bambino di imparare.
Tuttavia, possiamo interrogarci su questo tipo di approccio che sembra tenere conto solo della dimensione cognitiva e non sufficientemente di ciò che vive il bambino sul piano emozionale.
Negli ultimi trent’anni questa dimensione emotiva è sempre di più studiata e presa in considerazione quando si tratta di trovare degli approcci o metodi che favoriscano lo sviluppo del pieno potenziale dei bambini e degli adolescenti con o senza difficoltà (Côté, 2002; Lafortune e St-Pierre, 1994; Lafortune, Doudin, Pons e Hancock, 2004; Normand-Guérette, 2012; Pharand, 2003).
Negli anni settanta, malgrado la vastità e la quantità dei lavori, era difficile parlare di risultati conclusivi ed incoraggianti che lasciassero credere che questi metodi rispondevano in modo preciso alle attese. C’erano anche molti educatori e insegnanti che rimproveravano a tali metodi la loro mancanza di pertinenza e la scarsa consistenza dei risultati. Alcuni autori, come Lobrot (1975) addirittura sostenevano che la rieducazione nella lettura e scrittura era al 90% inutile e persino nociva. Altri, meno critici, come Noël (1976), asserivano comunque che risultati della rieducazione rimanevano generalmente modesti. Così, alla fine degli anni settanta, si riteneva che i metodi di rieducazione portassero a pochi miglioramenti. Ciò, ci diceva Van Grunderbeeck (1980), dovrebbe scatenare il grido di allarme nella testa di tutti i pedagoghi e ortopedagoghi.
Sembra azzardato condannare questi metodi senza chiedersi quale parte di responsabilità può avere il pedagogo nell’insuccesso o nei risultati poco incoraggianti degli alunni. Siccome è difficile attaccare o criticare senza prova formale della debolezza di un percorso o la sua realizzazione,ci sembra più produttivo concentrarsi sulla ricerca di dati supplementari che potrebbero portare dei chiarimenti ed aiutare, in un modo o nell’altro, a migliorare le conoscenze così come l’impatto degli approcci di rieducazione.Tutto ciò alla scopo di procurare a colui che utilizza questi metodi, degli elementi complementari che lo aiutino a prendere coscienza dell’importanza della disponibilità del giovane a ricevere i messaggi che gli vengono trasmessi (Guitouni e Brissette, 2000; Normand-Guérette, 2012). È in questo contesto che tratteremo il tema dell’interferenza emotiva. La nostra riflessione vuole essere un’integrazione per contribuire allo sforzo collettivo degli educatori e degli specialisti al fine di aiutare il bambino a conquistare certi traguardi e, se possibile, a migliorare il suo rendimento.

L’intelligenza e l’emozione
Da molto tempo, l’intelligenza è stata compresa e spiegata come un fattore in gran parte innato e per questa ragione, certe persone che provavano dei disturbi di apprendimento erano percepite come prive di intelligenza. Infatti, avevamo la tendenza a ridurre l’intelligenza all’intelletto, ovvero alla sola facoltà di “cogliere dei concetti” (Merlet, 2006). Purtroppo, un gran numero di persone continua a confondere queste due nozioni (intelligenza ed intelletto), anche se degli esperti precisano che l’intelletto non può rendere conto dell’intelligenza, poiché l’intelligenza è un insieme che include la memoria, la comprensione, l’analisi, la definizione e la percezione. Gardner (1996) identifica sette forme di intelligenza : logico-matematica, verbale, musicale, spaziale, cinesica, interpersonale e intrapersonale. Da parte sua, Gillet (vedi Legendre, 2005) considera che l’intelligenza include i seguenti elementi: l’induzione, il ragionamento, l’analogia, l’intuizione, la risoluzione di problemi e la creatività. Tutto questo dunque fa parte dell’intelligenza, che a sua volta non può prescindere anche dalle attitudini, poiché ognuno può tentare di sviluppare la propria intelligenza a modo suo a seconda dell’interesse che ha sugli avvenimenti o se investire in tale o tal altra conoscenza o abilità attraverso la quale la sua volontà di potenza può trarre beneficio.
Il problema dell’interferenza emotiva risiede spesso nel fatto che l’elemento scatenante è invisibile.
Tuttavia, certi giovani opporranno resistenza, completamente o in parte, a tutti gli apprendimenti che verranno loro proposti a causa di un meccanismo sviluppato consciamente o no nella loro struttura mentale, che si esprime con un’amalgama o successione di scatti o spinte emozionali, che impediscono il controllo o l’accettazione dell’insegnamento-apprendimento..
Queste emozioni si configurano come reazione, come tutela, rifiuto o chiusura e possono trarre origine dall’insicurezza, dal tradimento, dalla gelosia o da fattori fantastici e sentimentali. In questi casi possiamo dunque affermare che siamo di fronte a giovani che rispondono o non rispondono a certi criteri: è chiaro che il problema non deriva da una difficoltà di apprendimento, è piuttosto la conseguenza di variabili completamente estranee all’apprendimento, variabili che veicolano delle emozioni che possono motivare o demotivare il soggetto. È quello che faceva dire a Piaget, pur specialista delle strutture cognitive, ma consapevole del ruolo primordiale dell’affettività, che: «[…] perché l’intelligenza funzioni, occorre un motore che sia affettivo. Non si cercherà mai di risolvere un problema se il problema non interessa. L’interesse, la motivazione affettiva, è la molla di tutto» (vedi Bringuier, 1977, p.80).
L’importanza, a livello dell’apprendimento, sta nello scoprire o localizzare le variabili motivanti e demotivanti. In un certo senso, sarebbe possibile migliorare la capacità di colui che è demotivato, se riuscissimo ad adeguare a lui/lei il percorso in modo da far convergere i suoi sforzi ed il suo interesse di nuovo su ciò che gli viene proposto. D’altra parte, per colui che è motivato, bisogna anche prendere coscienza delle variabili motivanti per sapere come alimentarle ed evitare che, inconsciamente o per un errore tattico, finiamo per aggredirle, cosa che potrebbe creare un certo blocco motivazionale e fare emergere un ostacolo alla continuità d’apprendimento. Resta il fatto che, il problema dell’interferenza emotiva e del suo impatto sull’apprendimento risiede spesso nel fatto che l’elemento scatenante è invisibile e difficile da percepire sia per il bambino che per l’educatore, poiché esso è lontano dalla ragione, lontano dalla logica e non ha niente a che vedere con il razionale. A questo riguardo, Meyerson (1925) diceva : «La ragione non ha che un solo mezzo per spiegare ciò che non viene da essa, è quello di ridurlo al nulla.»

L’interferenza emotiva e i suoi fattori
È nostra intenzione, quindi, affrontare l’argomento non sotto l’aspetto razionale o cognitivo, ma piuttosto dal punto di vista della dimensione emotiva. L’interferenza emotiva è un meccanismo che si presenta all’improvviso e che si scatena o si installa ogni volta che, o per sbadataggine o per responsabilità nel suo lavoro, l’insegnante tocca senza volerlo o senza accorgersene, gli stimoli che alimentano la reazione emotiva e che, per l’appunto, provocano l’interferenza nel meccanismo psichico dell’allievo. Certi si interrogheranno con dubbi leciti sulla definizione dell’interferenza emotiva, a questi noi possiamo rispondere che abbiamo avuto bisogno di anni di lavoro e di riflessione, durante i quali ci siamo impegnati, non certo per risolvere la questione in modo definitivo, ma per acquisire una conoscenza sufficiente del fenomeno e dare il nostro contributo che qui di seguito veniamo ad illustrare.
Abbiamo identificato otto fattori che costituiscono l’avvio all’interferenza emotiva. Essi sono presentati nella tabella n. 1.

TABELLA 1 : Fattori all’origine dell’interferenza emotiva


1. L’insicurezza generalizzata.
Questo fattore comprende tutto la sfera delle influenze fetali, delle predisposizioni e delle circostanze della nascita del bambino. Inoltre, ad esso vanno associata anche la forza e le capacità fisiche e mentali del bambino riguardanti la nutrizione, l’ambiente nel quale è stato concepito e portato, nel quale è nato, così come la qualità del suo bagaglio genetico. In che cosa questo aspetto è importante? Permette di identificare le zone di forza e di debolezza nel bambino. Per contro, se mostriamo delle serie reticenze a considerare l’insicurezza come caratteristica innata e irreversibile, è preferibile parlare di predisposizioni e di influenza fetale. Ciò permette, infatti, di nutrire speranza e fiducia, perché da questo punto di vista, è possibile credere che con lo sforzo necessario e adeguato di rafforzamento della salute mentale e fisica, nel bambino si instaurerà un calo graduale della fragilità che provoca la sua insicurezza.

2. L’insicurezza affettiva.
Questo fattore è molto conosciuto e gli autori sono d’accordo generalmente nell’associarlo alla disponibilità dei genitori, all’affetto dato al bambino, alla qualità della relazione (Stassen Berger et Bureau, 2010).

3. Il conflitto interno tra il bisogno e la protezione. Questo fattore si inserisce nel quadro dell’insicurezza e dell’insicurezza affettiva, ma abbraccia inglobando nel suo meccanismo tutto l’aspetto della competizione, della gelosia e delle caratteristiche del posto dove si vede il bambino all’interno della sua cerchia più vicina. Spesso, per non subire, per non presentare delle modalità cognitivo-comportamentali non conformi alla normalità, il bambino si trova a vivere in conformità con le esigenze del suo ambiente e a sviluppare in parallelo uno stato di soffocamento che gli procurerà qualche difficoltà a controllarsi. Egli sceglie di conformarsi alle condizioni esterne perché sa che, in caso contrario, può essere rifiutato, emarginato o punito, o ancora perché l’esperienza gli ha insegnato che dimostrare la sua possessività o una certa aggressività oppure lasciare libero corso alla sua volontà di potenza può attirargli delle punizioni e privarlo della protezione dell’adulto. È questo genere di conflitto che produrrà lo stato di soffocamento a cui ci riferiamo, fino alla perdita di controllo. A questo proposito, Lefcourt (vedi Grover, 1981) riferisce che l’esperienza gli ha permesso «di rendersi conto che il fatto di etichettare un bambino con difficoltà di apprendimento rischia di esasperare il suo sentimento di impotenza piuttosto che di accrescere il suo sentimento di responsabilità e di controllo. Se l’etichetta suppone che le sue difficoltà sono legate a qualcosa di cui ha poco controllo, oppure nessun controllo, il bambino considerato in questo modo può imparare ad essere impotente. Secondo Seligman (vedi Grover, 1981), un gran numero di presunte difficoltà di apprendimento possono , in effetti, essere dovute ad un’impotenza imparata»³

4. Il voler essere e l’incapacità di essere.
Il voler essere si identifica con tutto ciò che riguarda il desiderio di dimostrare o di brillare, essere il primo, di non perdere il proprio posto, di attirare l’attenzione o di essere visto come il migliore, l’apprezzato e l’amato. Questo desiderio, però, deve confrontarsi con l’incapacità di essere, sia che si vinca sia che si perda: la prospettiva migliore sarebbe tener presente che non si è altro che uno tra i tanti sia nell’uno che nell’altro caso. Potremmo constatare, anzi, che perfino in un contesto in cui la persona è vincente, la sua paura di perdere può essere forte a tal punto che il suo stato emozionale ne risulti perturbato.

5. Il posto o la posizione sociale che un individuo occupa.
Questo fattore è legato al posto che una persona ottiene o che gli viene rifiutato nella società (posizione sociale) e nell’ambiente nel quale vive, e ciò, in funzione della normalità e dei valori veicolati nella vita degli adulti. I giovani possono rispondere o no a questi criteri o convenzioni, in rapporto ai quali hanno difficoltà a collocarsi, senza contare anche l’incoerenza dell’adulto e la difficoltà del bambino nel capire ciò che l’adulto vuole realmente. Quest’insieme di elementi porta ad una forma di dissonanza nella relazione interpersonale tra giovani e adulti, cosa che genera un’instabilità e impedisce la continuità di una vita rassicurante per il bambino.

6. Il bisogno da soddisfare e l’insoddisfa-zione subita.
I bisogni da soddisfare possono frequentemente sottostare a delle regole. Ad esempio, un bambino che vuole essere libero e indipendente e che deve piegarsi alla disciplina e ad una regola di vita, rischia di essere percepito dai suoi educatori, come sgradevole o antipatico e indirettamente un soggetto da rifiutare, se non disprezzare


7. L’ambiente.
L’ambiente è un elemento importante, anche perché l’educazione nelle famiglie come nelle scuole è centrata sulla conoscenza e la capacità del bambino ad inserirsi ed integrarsi nell’ambiente nel quale vive. Quindi accade che degli adulti siano più interessati a riempire il cervello dei bambini con informazioni oppure istruzioni su come comportarsi piuttosto che a dar loro l’opportunità di conoscere, di scoprire e di imparare a vivere sperimentando nel proprio ambiente.


8. La relazione tra il bambino e l’educatore.
La relazione bambino-educatore fa appello, da una parte, a tutto il bagaglio che il bambino ha in sé e che può proiettare nelle sue relazioni con l’educatore e, dall’altra, alle dissonanze (tra il razionale e l’emozionale) vissute dall’educatore. Queste dissonanze, spesso, provocano e creano in quest’ultimo dei conflitti difficili da padroneggiare, poiché questi generalmente restano nascosti dietro il suo senso di responsabilità, il suo ruolo sociale, il suo programma da insegnare, la sua disciplina da mantenere, etc.



Lo stress e la disponibilità ad imparare
I diversi fattori elencati contribuiscono ad instaurare nel bambino uno stress che, in aggiunta a ciò che è stato detto in precedenza, va ad affaticare e danneggiare le sue energie vitali con una diffusione continua nel suo organismo degli ormoni generati dallo stress. Questo nuovo fattore determina così nel bambino che subisce degli stimoli intensi o frequenti, l’indebolimento generale del suo stato fisico e psichico più o meno proporzionale alla quantità degli ormoni dello stress diffusi nel suo sistema. In alcuni casi, è in questo momento che la degradazione dello stato del bambino diventa manifesta. Così, per non arrivare a questo stato, è importante identificare le variabili che provocano l’interferenza emotiva, e partendo da lì, lavorare, nel percorso educativo, per diminuire o attenuare le conseguenze di queste variabili. In questo modo si darà l’opportunità al bambino di evitare un deterioramento troppo forte del proprio stato che potrebbe ingenerare una incapacità totale ad apprendere e poi, di seguito, a una deficienza o ad un serio disadattamento.
Se un gran numero di variabili intervengono sul suo stato affettivo, il bambino non coglierà che una parte dell’informazione

Dopo avere sottolineato l’importanza dell’aiutare il bambino a diminuire il suo stress, conviene prendere in considerazione gli elementi che possono fargli vivere una frustrazione della sua volontà di potenza, il biasimo, il rigetto, la mancanza di fiducia o il complesso di inferiorità. Ciò aumenterà a seconda del ritmo in cui le sue difficoltà si ripeteranno o a seconda della frequenza con la quale si sentirà messo da parte. Oltre a ciò bisogna anche prendere in considerazione l’adeguatezza del tipo di attenzione legato al sostegno che viene dato ad un bambino a causa delle sue difficoltà così come la tendenza a puntargli il dito addosso facendolo sentire diverso dagli altri. In entrambi i casi, non è detto che si determini l’eliminazione o la diminuzione delle sue reazioni emozionali, ma almeno si riducono i rischi. Inoltre, l’aumento inevitabile del suo stress sarà all’origine di nuovi meccanismi come la sordità o la miopia nevrotica. Infatti, abbiamo constatato che a causa di uno stato stressante o di una intensa emozione, il bambino prova una difficoltà più o meno grande nel cogliere o comprendere ciò che gli viene spiegato o ciò che si vuole impari. Tali elementi sono anche osservabili negli adulti che, in certi momenti, reagiscono allo stesso modo del bambino. Malgrado la loro normalità o identità matura, in periodi precisi, quando le sensibilità reagiscono e lasciano emergere le loro emozioni, questi adulti diventano anch’essi incapaci di ascoltare, di vedere o di comprendere, dopo qualche tempo, è stato osservato un ritorno alla normalità senza tuttavia riuscire a colmare il vuoto venutosi a creare nello spazio-tempo dell’informazione ricevuta precedentemente.
Ciò mette in evidenza la realtà che l’interferenza emotiva ha un’influenza su tutto il meccanismo umano, soprattutto nelle persone in cui una padronanza di sé o un’autoregolazione è debole o non abbastanza solida. Inoltre, anchese questa autoregolazione è forte, essa può perdere la sua forza in funzione dell’importanza e dell’intensità di quello che la persona vive emotivamente. A titolo d’esempio, ritorniamo al fenomeno della sordità o della miopia nevrotica così come alle difficoltà di comprensione associate a questa situazione. I nostri lavori ci hanno condotto ad osservare delle persone la cui emozione era stata provocata e a verificare la loro comprensione, così come le loro capacità percettive e visive. Queste esperienze effettuate su alcuni gruppi hanno provato che una persona, messa in uno stato di frustrazione o di insicurezza o di ritorno a ricordi che risvegliano insoddisfazioni o sentimenti denigratori, vive un’emozione presente o passata che provoca una forma di momentaneo vuoto o assenza nella circostanza presente. Questo meccanismo gli impedisce la percezione del messaggio nel suo insieme oppure di vedere e distinguere gli scritti in modo esatto, e gli causa delle difficoltà nella comprensione dell’informazione data nella sua totalità. La nostra esperienza ci fornisce il caso di un bambino che, essendo numerose variabili entrate in gioco sul suo stato affettivo (che, essendo entrate in gioco numerose variabili sul suo stato affettivo), sulla sua fiducia e sulla sua capacità di avere un posto all’interno della sua cerchia, con il tempo, ha perso una parte dell’informazione o del messaggio trasmesso: il primo giorno ha cominciato a percepire il 75% del messaggio; il secondo giorno, il meccanismo si è accentuato e, alla fine dell’anno, ha acquisito dei ritardi più o meno considerevoli che rappresentano la disfunzione del suo orologio e la durata dell’emozione e dello stress vissuto.
Non si può incriminare un bambino per i suoi insuccessi,
se era precedentemente in uno stato di fragilità

Questo esempio dimostra bene che il fenomeno dell’interferenza emotiva gioca un ruolo fondamentale nella difficoltà di apprendimento del bambino. Questa interferenza non può diminuire o non può essere controllata senza che vi sia uno sforzo da parte dell’educatore, genitore, insegnante, operatore o esperto, per preparare un percorso propizio a rendere il giovane più disponibile all’apprendimento.

Tracce per possibili interventi
Benché adeguato sul piano delle tecniche di stimolazione e di rafforzamento delle abilità percettive, sensoriali o motrici, ogni metodo deve anche tenere conto della necessità di diminuire il fenomeno dell’interferenza emotiva per aiutare il bambino a ritrovare un equilibrio favorevole all’attualizzazione delle sue attitudini, delle sue capacità e della sua intelligenza. In questo contesto, non si può incriminare un bambino per i suoi insuccessi, se precedentemente era in stato di fragilità, senza considerare anche la responsabilità dei genitori e dei professionisti rispetto alla relazione che hanno stabilito con il bambino. In certi casi, si potrebbe dire che la responsabilità tocca ai genitori, agli insegnanti ed agli esperti.
Un obiettivo resta vitale, quello del rafforzamento
dell’identità umana
La nostra intenzione non è quella di accusare nessuno, ma di dimostrare che quando gli educatori non posseggono essi stessi una conoscenza approfondita della relazione interpersonale e si racchiudono nella logica della normalità stabilita, ignorando tutto il contesto dell’emozione, dell’istinto e della ragione dell’altro, contribuiscono a fare nascere o ad aumentare uno stato destabilizzante nel bambino. Per questo motivo, si scatena il meccanismo dell’interferenza emotiva e, a seconda delle situazioni nelle quali si trova il bambino, questo meccanismo diminuirà o bloccherà le sue capacità di funzionamento e rallenterà il suo orologio umano, fino a farlo diventare sopraffatto dagli avvenimenti.
Per migliorare la situazione o diminuire il problema dell’interferenza emotiva, conviene intraprendere un percorso preventivo e allo stesso tempo curativo. Esso consiste innanzitutto in un colloquio-intervento con i genitori per sensibilizzarli al problema, e aiutarli a prendere coscienza dell’importanza del loro messaggio e della loro relazione affettiva. È ugualmente importante sensibilizzare gli insegnanti della scuola elementare quasi nella stessa maniera come si fa con i genitori, perché la scuola primaria è un po’ la continuità della vita familiare. D’altronde, spesso, il bambino proietterà molti elementi della sua vita familiare sull’insegnante, l’esperto o il professionista. Egli si ’aspetta di vivere con questi adulti lo stesso tipo di relazione che ha conosciuto fino ad allora in casa. D’altronde, non bisognerà neanche dimenticare l’insicurezza che il ragazzo vivrà a causa dei cambiamenti con il passaggio dalla scuola primaria a quella secondaria, dovuti alle novità nel suo ambiente educativo. Questa transizione può far sì che l’alunno viva delle difficoltà, perda la motivazione o diventi aggressivo in un certo modo per nascondere le sue insicurezze. Anche l’insegnante della scuola secondaria dovrebbe prendere in considerazione tutti questi elementi ed aiutare il giovane, con un approccio adeguato, a ritrovare e a vivere un po’ più di sicurezza e di fiducia rispetto al nuovo ambiente così come agli approcci pedagogici della secondaria.
L’aiutare richiede una coerenza da parte dell’adulto nei fatti e nelle sue azioni con lo scopo di evitare ai giovani di perdere fiducia o vivere l’incertezza e la difficoltà di capire i messaggi e le attese nei suoi riguardi. Occorrerebbe anche sviluppare dei mezzi di prevenzione che permettano di misurare al più presto, ogni anno, il livello dello stato emotivo del bambino il cui barometro può essere la sua volontà di potenza, le sue insoddisfazioni e le sue frustrazioni. Ciò permetterà di adattarsi a lui. D’altra parte, converrebbe diminuire quanto più possibile l’utilizzo dei test detti d’intelligenza che non prendono sufficientemente in considerazione l’insieme delle variabili che provocano l’emozione, creano l’interferenza e, così, diminuiscono le capacità cognitive e affettive della persona.
Per tutto ciò, un elemento resta cruciale, quello del rafforzamento dell’identità umana affinché il giovane possa resistere alla pressione, sviluppare la sua motivazione e disporre di una volontà di continuità nell’azione.
Cosa intendiamo per identità umana?
«L’identità umana, è contemporaneamente un sentimento interiore e una forza che si riflette nei nostri comportamenti. […] formare e sviluppare l’identità del bambino piccolo, [è] contribuire all’equilibrio e all’integrazione del suo istinto, delle sue emozioni e della sua ragione, invece di privilegiare un aspetto a scapito degli altri, e ciò, per favorire un processo di evoluzione personale. […] [Lo] sviluppo [dell’identità umana] è determinato da tre fasi : 1-il sostegno della famiglia alla nascita e nel corso dell’infanzia; 2-la scoperta da parte del bambino di quello che egli è e di ciò che può vivere con gli altri, attraverso le sue relazioni nella famiglia e poi nella scuola; 3- la scelta che fa [l’individuo] diventato adulto di integrarsi o no nella società, sulla base delle conoscenze acquisite, delle relazioni stabilite, dei sentimenti e del grado di insicurezza che ha vissuto e che lo hanno formato» (Guitouni e Normand-Guérette, 1993,pp.155-157).

Questa identità aiuta il giovane a sentirsi una persona a pieno titolo e a capire che tutto l’aspetto dell’apprendimento nella sua vita è una necessità, ma non un fine a sé. Per lo stesso motivo, potrà fare fronte ai suo obblighi senza vivere uno stato di stress assoluto. Un altro punto importante da considerare nelle scuole riguarda il meccanismo del rilassamento e l’apprendimento della respirazione⁴. Così, un’ossigenazione continua alimenta e rinforza il cervello in modo che il bambino possa sostenere gli sforzi necessari all’apprendimento.
Terminano qui le riflessioni nate dalle nostre ricerche sull’interferenza emotiva, fenomeno da tenere presente per comprendere ciò che vivono i giovani che hanno o no difficoltà di apprendimento o di adattamento.
Speriamo di avere indicato una strada agli educatori che vogliono sostenere i loro discenti nella ricerca di un equilibrio emotivo e di uno sviluppo del loro potenziale. ∎
Tradotto dalla rivista Psychologie préventive no.45 (SROH,Montréal)


Riferimenti
Bringuier, J.C. (1977). Conversations libres avec Piaget. Paris : Laffont.
Côté, R. L. (2002). Faire des émotions et de l’affectivité des alliés dans le processus
d’enseignement-apprentissage. Dans L.Lafortune et P. Mongeau (dir.), L’affectivité dans l’apprentissage (pp. 85-114). Québec: PUQ.
Gardner, H. (1996). Les intelligences multiples. Pour changer l’école. La prise en compte des
différentes formes d’intelligence. Paris:Retz.
Grover, S.C. (1981). La difficulté d’apprentissage. Santé mentale au Canada, 29(3), 22-24.
Guitouni, M. et Brissette, Y. (2000). Au cœur de l’identité: l’intelligence émotionnelle,
Outremont: Carte Blanche.
Guitouni, M. et Normand-Guérette, D. (1993). Entretiens avec Moncef Guitouni
sur ses études du comportement des jeunes. Québec: PUQ.
Lafortune, L. et St-Pierre, L. (1994). Les processus mentaux et les émotions dans l’apprentissage.
Montréal : Les Éditions Logiques.
Lafortune,L., Doudin, P.-A., Pons, F. et Hancock,D. R. (2004). Les émotions à l’école. Québec:PUQ.
Lambert, J.L. (2002) . Les déficiences intellectuelles: actualités et défis. Fribourg, Ed. universitaires.
Legendre R. (2005). Dictionnaire actuel de l’éducation. Montréal : Guérin.
Lobrot, M. (1975). Troubles de la langue écrite et remèdes. Paris : ESF.
Merlet, P. et al. (2006). Le Petit Larousse illustré
Meyerson, E. (1925). La déduction relativiste. Paris : Payot.
Noël, J.M. (1976). La dyslexie en pratique éducative. Paris : Doin.
Normand-Guérette, D. (2012). Stimuler le potentiel d’apprentissage des enfants
et adolescents ayant besoin de soutien. Québec: Presses de l’Université du Québec.
Pharand, J. (2003). Les émotions en salle de classe, un territoire inexploré.
Psychologie préventive, 39, 19-23.
Stassesen Berge r, K. et Bureau, S. (2010) .Psychologie du développement. Montréal: Modulo.
Van Grunderbeeck, N. (1980). La dérive des méthodes de rééducation.
Québec français, octobre, 28-29.

Note
1. La prima apparizione di questo articolo risale a 1983. I riferimenti posteriori a questa data sono stati aggiunti al testo.

2. La volontà di potenza è una forza che spinge l’individuo a tirare fuori la propria energia per liberarsi dalla dipendenza e “che spinge a cercare il modo per crescere” (Guitouni e Normand-Guérette, 1993, p.151)

3. Lambert (2002) spiega che : «La persona acquisisce la percezione soggettiva che non può esercitare un controllo su molteplici aspetti della sua cerchia. Ne derivano dei deficit nell’iniziare le risposte o nel perseverare sugli sforzi per raggiungere un risultato. I bambini che attribuiscono i loro fallimenti a fattori non controllabili perseverano meno su un dovere nel quale hanno conosciuto il fallimento. Essi presentano inoltre un deficit di risposte d’inizio, ovvero di coinvolgimento in un compito. […] Molte ipotesi sono avanzate per spiegare la genesi dell’impotenza imparata. Una storia di feedback negativi, ovvero di sanzioni sistematiche di fallimenti, è incontestabilmente un elemento da tenere in considerazione.» (p. 75)

4 Nel 1993, Guitouni propose degli esercizi « che favoriscono un apprendimento della respirazione per migliorare la qualità dell’ossigenazione del cervello, così come per creare di una certo lasciar andare e rilassamento che aiutino ad attenuare lo stress o anche ad eliminarlo. Il tutto ha come effetto quello di rigenerare le energie e di permettere una migliore concentrazione ed una migliore qualità nella disponibilità e nell’ascolto. »
(Guitouni e Normand Gérette, 1993, p.177)