Le mappe emotive - Analisi dei disturbi emozionali e modalità di intervento

2014-09-30Pubblicato da Pietro Cesare

 

Mentre si riflette su quanto cominciato a postare, mi inserisco soffermando l'attenzione su due prospettive della nostra trattazione (a ben vedere, tutt'altro che disgiunte tra loro) e cioè sulle "mappe emotive" (da una breve intervista ad Umberto Galimberti) e sui risvolti delle emozioni nella formazione della mente, e cioè su come le emozioni influenzino l'apprendimento (e quindi il rendimento) e viceversa, da un passo di D. Ianes - S. Cramerotti. Buona visione e buona lettura! Nel bel mezzo della terza seduta con lo psicologo, Mario interrompe il test che stava facendo e dice: “Lo sai che la mia maestra dà le superstelle?” Mario è un bambino di quasi sette anni e i genitori lo hanno portato per una consulenza psicologica perché siamo già nella tarda primavera della prima classe della scuola primaria e il bambino non ha ancora imparato a leggere. Riconosce quasi tutte le lettere, ma ancora fatica a fondere anche semplici sillabe. Lo psicologo ha già escluso con ragionevole sicurezza che il bambino abbia un ritardo mentale e sta lavorando su alcune prove specifiche per la valutazione delle capacità di apprendimento, quando il bambino fa quell'osservazione: "Lo sai che la mia maestra dà le superstelle?" "Davvero? E cosa sono le superstelle?" Da un punto di vista tecnico, lo psicologo non dovrebbe permettere a Mario di interrompere un test e rinforzare con la sua attenzione questi comportamenti di evitamento. Ma in una relazione di aiuto le regole tecniche devono spesso lasciar posto all'empatia e qui è chiaro che il bambino sta manifestando un bisogno emotivo di raccontare. Lo psicologo, dunque, favorisce questa comunicazione e gli chiede cosa sono le superstelle, anche se ha abbastanza dimestichezza delle strategie cognitivo-comportamentali e del mondo della scuola per conoscere già la risposta. Quasi certamente le superstelle sono una forma di token economy. Mario infatti spiega: "In classe c'è un cartellone con i nomi di tutti i bambini. Quando un bambino è bravo la maestra attacca vicino al suo nome una stella d'oro”. “Ecco cosa sono le superstelle! E tu quante ne hai prese finora?” Il bambino guarda il suo psicologo con un'espressione difficile da descrivere. È certamente un'espressione di infinita tristezza; ma c'è dell'altro. C'è come una specie di compatimento anche nei confronti dell'interlocutore. Sembra che Mario voglia dire: devi aver ben poca esperienza di come funzionano le scuole se mi fai questa domanda. Ma non vedi come sono io? E non sai come sono le maestre? Quante superstelle vuoi che abbia preso? E infatti risponde, come la cosa più triste ma anche più naturale del mondo: "Nessuna". Un progetto educativo che tenda a essere completo e funzionale non dovrebbe prescindere dagli aspetti emotivi dell'allievo. Il brevissimo episodio di Mario può suggerirci alcune considerazioni che ci accompagneranno lungo tutto il capitolo. A cosa serve mettere in atto un progetto psicoeducativo per favorire la motivazione attraverso l'uso di rinforzatori simbolici come le superstelle se poi questi producono effetti emotivamente così devastanti in un allievo difficile? Che gli effetti siano devastanti è evidente. Non solo Mario non ha mai preso un rinforzatore (il che lo rende molto triste). Si è anche convinto che è naturale e inevitabile che le cose stiano così (il che produce uno stile di attribuzione esterno e stabile che renderà molto difficile il suo impegno a cambiare). Ma non è tutto, purtroppo. Lo psicologo spiega infatti a Mario che anche da lui si possono vincere superstelle, che si può fare un programma insieme e che ogni volta che lui si impegnerà potrà guadagnarne una. Ma Mario lo interrompe: "A me non piacciono le superstelle". Sarebbe troppo facile e troppo semplicistico sostenere che il compito del Piano educativo individualizzato sia quello di integrare l'alunno disabile, di renderlo il più possibile autonomo e di insegnargli le abilità scolastiche che sarà ragionevole programmare per lui. Sarebbe semplicistico perché le emozioni e i modi di vedere noi stessi e la realtà che ci circonda guidano in larga misura i nostri comportamenti e i nostri apprendimenti. E d'altra parte, attraverso un meccanismo che si autoalimenta, i nostri comportamenti e apprendimenti influenzano le nostre emozioni. Un giorno, dopo aver svolto per un intero anno scolastico un programma in classe di educazione razionale emotiva basato su questi principi (Ellis, 1989; 1993), una bambina di quarta della scuola primaria ha scritto alla sua maestra: "Ho capito che non sono le cose ma i nostri pensieri a farci provare le emozioni" (Conti et al., 2003). I bambini sempre in ansia perché convinti che il loro rendimento scolastico non sia all'altezza delle aspettative dell'ambiente possono vivere quest'ansia in molti modi diversi. Può darsi che uno, soprattutto la mattina dei giorni più impegnativi, si senta male. Può darsi che un altro, al contrario, frequenti regolarmente (anche troppo), ma quando è in classe faccia poi di tutto per attirare su di sé l'attenzione dell'insegnante e dei compagni, e dal momento che ha intimamente paura di non poter mai ottenere questo risultato sforzandosi di essere un alunno all'altezza della situazione, si sforzerà di ottenerlo per al¬tre vie: mostrando che è il peggiore, che non sta mai fermo, che non sta mai zitto, che "è come se avesse un diavolo in corpo". Entrambi i bambini otterranno qualche risultato da questi disturbi. Il primo eviterà le lezioni particolarmente ansiogene e il secondo terrà a bada la sua ansia dimostrando a se stesso che anche lui ha un ruolo ben definito nella sua classe ed è capace di farsi valere (o per lo meno di far vedere che esiste). Ma per entrambi le probabilità di un apprendimento soddisfacente sono molto basse, e questo indipendentemente dalle loro potenzialità intellettive. L'ansia avrà pesantemente interferito sui loro comportamenti e sui loro processi di apprendimento. Inoltre, come dicevamo sopra, avverrà probabilmente anche il processo inverso. I bambini, rimasti indietro a causa di questi loro comportamenti, svilupperanno nei confronti della scuola delle forme di ansia e di aggressività ancora maggiori, in un circolo vizioso potenzialmente senza fine. Purtroppo non è tutto. Forse il primo bambino andrà incontro a esperienze depressive (Masi, 1993). Forse finirà per stare in casa sempre più a lungo, non avrà più voglia di vedere i compagni (ai quali dovrebbe spiegare in qualche modo le sue assenze ripetute) neppure fuori dell'ambito scolastico. Forse le sue opportunità di integrazione e di apprendimento di nuove abilità sociali si faranno così sempre più ridotte. Il secondo bambino, che scarica l'ansia facendo il diavolo a quattro tutta la mattina, si renderà conto che il suo apprendimento è sempre più deficitario, che i compagni, sul momento, ridono delle sue pagliacciate e sembra che lo trovino simpatico, ma alla lunga lo considerano ben poco, e quando c'è da impegnarsi in cose serie tendono a evitarlo: può darsi che questo abbassi progressivamente la sua autostima, almeno in alcuni settori. Il bambino diventerà allora sempre più ansioso, sempre più irrequieto, sempre meno contento di sé: è chiaro che in casi come questi limitarsi a stendere un Piano educativo individualizzato solamente didattico avrebbe poco senso. Qualcuno potrebbe domandarsi a questo punto che significato abbia affrontare questi argomenti in un libro sostanzialmente dedicato a professionisti dell’educazione piuttosto che a psicoterapeuti. Vedremo nel corso del capitolo quanti significati può assumere l'occuparsi di aspetti emozionali da un punto di vista educativo. Vedremo come l'insegnante possa tener conto delle emozioni che influenzano l'apprendimento e di come l'apprendimento influenzi le emozioni. Il piccolo Mario, con il quale abbiamo iniziato il capitolo, ha bisogno di fare esperienze emotivamente nuove e di scoprire che, se si programmano obiettivi adeguati e facilitati, anche lui può guadagnare superstelle. Ma sarà difficile che uno psicologo, da solo, chiuso nel suo studio, possa ottenere questi risultati. Ha bisogno di un gioco attento e continuo di collaborazione con gli insegnanti. È molto bello vedere come questa cooperazione continua tra psicologia e scuola finisca quasi sempre per pagare (Celi e Fontana, 2003; 2007), perché il risultato non sarà solo un miglioramento delle prestazioni di Mario, ma anche che il bambino scoprirà che non era vero che le superstelle non gli piacevano! Il piano educativo individualizzato, D. Ianes, S. Cramerotti, Erickson, 2011, pp. 269-271